di Stefano Ragni – Con un efficace “ricomincio da tre” ieri sera la Sagra Musicale Umbra ha snocciolato la sua serata nel chiostro di san Pietro.
Una formula felicemente adottata, tre sonate di Beethoven a ciascuno per i due pianisti impegnati, una proposta in prima serata, alle 19, l’altra alle 21.
Uno spreco di materiale, secondo noi, perché solo pochi privilegiati hanno il tempo di sostenere il peso di due impegni consecutivi.
Ma basta saper scegliere.
A noi è andata di lusso, perché Filippo Gamba, il solista di ieri sera, si è rivelato un musicista impagabile, raffinato cesellatore di incisi, ritmicamente ben sostenuto, pedale soffuso, una cura dei particolari che ci faceva ricordare il vecchio Richard Goode.
Ci è piaciuta oltremodo la sua versione della Sonata op. 7 che non di rado si ascolta tonitruante e fragorosa, dimenticando che, ad onta della somiglianza con gli atteggiamenti tonali della sinfonia Eroica, si tratta di una raccolta idilliaca.
Tanto che Gamba ha sapientemente smorzato gli attacchi e ha plasmato le terzine tematiche, levigando il suo tocco su un tono di racconto leggiadro e tenero. Una porcellana invetriata con gusto che ha reso giustizia a una grande pagina con cui Beethoven iniziava il grande viaggio verso l’espansione della forma-sonata.
Non a caso, dopo l’Hammerklavier che ascolteremo domenica mattina, si tratta della Sonata più ampia del ciclo.
E molto della durata si deve al movimento centrale, un floreale “Largo con grande espressione” che, sotto volute ornamentali raffaellesche cela l’ordito belcantistico rossiniano. Una pausa, un momento di raccoglimento, prima del Minuetto che ha un tumultuoso Trio, ben levigato da Gamba con toni smussati, prima di accedere al poderoso finale suddiviso dall’esecutore in blocchi di registri autonomi, spesso pennellati da toni sussurrati.
Della iniziale Sonata op. 90 c’è da mettere in luce la grazia e la compostezza con cui Gamba ha ripartito le sezioni di un dittico che, al di là delle fantasiose ricostruzioni narrative, è un piccolo plesso enigmatico di puro linguaggio sonoro. Nel primo tempo Gamba ha sapientemente trattenuto le sonorità, alternando le indicazioni dell’autore dal “incitando” al “calmando”, un’alternanza senza posa che può in effetti dare adito a contenuti extramusicali. Il Rondò successivo è un’autentica oasi di pace, un occhio del ciclone dove non soffia un alito di vento: una melodia continua, con tante sospensioni, come commentava Liszt, un racconto infinito nei toni di una Jane Austen, uno scrigno di preziosità domestiche. Forse il sogno di quella famiglia che Beethoven non ha mai avuto.
Chiusura con la Patetica, ad onta di ogni logica storica. Ritornare indietro dopo l’op. 90 vuol dire invertire i ruoli e rifarsi una verginità davanti all’evoluzione storica del linguaggio. Cioè “non c’entrava per niente, non er quello il posto suo”.
Qui Gamba, per forza di cose, ha dovuto trattenere il tocco e le dinamiche tenendo conto di quanto aveva già esposto.
Di conseguenza la Patetica ha perso la novità dell’irruzione di quei celebri ruggiti iniziali, assumendo l’altezzosità di una “sonata da chiesa”.
Ci è piaciuto il comportamento di Gamba che, pur galoppando nell’Allegro di Molto, ha poi trattenuto lo slancio del rondò finale, trasformandolo in una elegante e disinvolto trottare, con quel po’ di febbre che hanno anche ieri misurato all’ingresso di san Pietro.