By CORRADO PASSI / SEPTEMBRE 20, 2020

Filippo Gamba, pianista italiano di fama internazionale, nel 2000 vince il Primo Premio al Concours Géza Anda di Zurigo. Viene inoltre insignito dalla Giuria, presieduta da Vladimir Ashkenazy, del “Premio Mozart” per la migliore interpretazione del concerto per pianoforte ed orchestra dello stesso autore. Questo successo segue a numerose altre affermazioni nelle più prestigiose competizioni internazionali: Van Cliburn, Leeds, Bachauer, Rubinstein, oltre al 2° Premio al “Beethoven International Piano Competition 1993” di Vienna, al 1° Premio al “Bremen Klavierwettbewerb 1995” e al 1° Premio al “Concorso Pianistico Internazionale Ettore Pozzoli 1999. Ha fatto parte delle Giurie ai Concorsi Busoni-Bolzano, Beethoven-Vienna, Bremen ,Geza Anda-Zurich. Ha tenuto Masterclass per il Festival Musicale di Portogruaro, le “Settimane” di Blonay, Music of Southern Nevada, Asolo Musica, UDK Berlino, Accademia di Musica di Pinerolo. Dal 2005 è Professore presso la Hochschule für Musik di Basilea.

Maestro Gamba, la carriera di un concertista si evolve lungo il corso della vita, ma i primi stimoli – quelli che generano passione e motivano all’impegno – nascono in giovanissima età. Ci racconta la sua storia?

L’incontro con la Musica è stato del tutto fortuito, non cercato, quando,da ragazzino dedito al divertimento e al piacere della condivisione sportiva per il calcio, grazie alla lungimiranza del papà mi è stata sottoposta la possibilità di trascorrere qualche momento al pianoforte. Papà, che cantava in un coro di montagna e appassionato di lirica, mi indusse a prendere lezioni con l’allora direttore del coro. Fin da subito trovai una piacevolezza e una naturalezza nello stare allo strumento, quasi fosse una cosa che sapevo già fare. Questo provocava una grande soddisfazione e piacere, pertanto proseguire non è stato uno sforzo. Da lì l’ingresso in Conservatorio a Verona e l’iter naturale del corso di studi, completati con il Maestro Bonizzato. Potremmo dire che la Musica mi ha salvato da una infelice carriera di calciatore!

In musica, come in letteratura e in qualsiasi altro ambito artistico, esiste un binomio indissolubile tra il talento e la dedizione incondizionata ad una missione. Che cosa rappresenta, per lei, il talento, e qual è il rapporto tra esso e lo studio, il perfezionamento e la tensione costante al miglioramento?

Potremmo dire che talento e dedizione è un binomio vincente e, al tempo stesso, indissolubile, necessario. Gli inizi sono stati, come dicevo poc’anzi, all’insegna della piacevolezza, tutto sommato facilitati da una predisposizione naturale, ma nel corso degli studi, e soprattutto dopo il diploma, prendere consapevolezza di avere un talento ha rappresentato una forma di responsabilità che ha avuto dei risvolti “soffocanti” in termini di dovere. La tenacia nello studio è stato un elemento essenziale, che combinato al talento ha portato dei frutti. A distanza di anni questo binomio ha perso il peso dell’incombenza a favore di un bisogno per la ricerca, intesa come necessità vitale che tende all’assoluto, creando una sorta di costante insoddisfazione, che è poi il vero motore, indispensabile al raggiungimento dei propri obiettivi e dell’urgenza artistica più profonda.

Nell’evoluzione artistica di un solista esistono momenti topici, cruciali, nei quali si prendono decisioni estetiche che il pubblico percepisce come virate, cambi di registro. Quali sono stati, nella sua carriera, i momenti più importanti, determinanti?
Nella sua esperienza personale quanto è cambiato l’approccio alla letteratura musicale?

Diciamo che ho sempre coltivato una propensione all’individuazione ed evoluzione di una visione personale ed autonoma nell’approccio musicale. Questo mi è stato insegnato negli anni del Conservatorio e attorno ai venticinque anni ho sentito l’urgenza di fare da solo. Quella fase rappresenta il momento dell’adultità musicale, cercata e voluta anche a costo di sbagliare. L’istinto va però supportato da conoscenze, ascolti e confronti che rappresentano uno stimolo fondamentale. Tutt’oggi, nell’affrontare una nuova Opera, tendo ad ascoltarmi, comprendere le mie reazioni e il mio sentire, nella più attenta osservazione del testo, fonte primaria di informazioni che tuttavia vanno interpretate e filtrate. La profonda adesione e fedeltà al proprio sentire musicale è un prerequisito necessario, che porta all’onestà intellettuale di cui la Musica si nutre. Questo non è ovviamente sufficiente:il lavoro di scandaglio, lavoro quotidiano coltivato nella dimensione domestica, rappresenta il momento più creativo ed entusiasmante. In questa direzione l’approccio musicale non è molto cambiato negli anni, non ci sono state illuminazioni o folgorazioni ma, piuttosto, un lavoro certosino, devoto e il più possibile autentico.

Negli ultimi tempi si è dedicato all’esecuzione integrale delle Sonate di Beethoven. Qual è stato il motivo che l’ha spinta a scegliere una simile sfida?

Esatto, una sfida… Non avevo certo idea di affrontare questo Corpus, ma una proposta concertistica mi ha fatto riflettere sull’opportunità di affrontarlo. Dopo qualche settimana di riflessione mi sono lanciato in questa sfida, appunto. Vi sono innumerevoli e meravigliose integrali beethoveniane e la mia non è certo l’intenzione di dire qualcosa di nuovo ma, piuttosto, di poter dire qualcosa di personale. Ciascuno di noi ha delle cose da dire, nelle forme più diverse; le sfumature possono essere molteplici e comunque interessanti. Mi sono riservato questo spazio, uno spazio nel quale poter esprimermi attraverso la Musica.

Lei è considerato un pianista estremamente fedele alla partitura, attento all’aspetto filologico della lettura. Quanto, nel corso degli anni, la sua attitudine analitica e gli aspetti più emotivi, psicologici della sua interpretazione si sono tra loro bilanciati?

Il fascino di quest’Arte è quello di avere la possibilità di entrare nella sfera più intima di chi lascia, componendo i capolavori che conosciamo, testimonianze forti, solcando la via dell’emozione e dell’intelletto. Il bilanciare questi aspetti è l’operazione più complessa. Infatti si deve tenere conto di ciò che la partitura suggerisce, della tradizione, e combinare questi aspetti con le emozioni personali più profonde. L’ascolto è l’elemento chiave: l’ascolto del suono che si produce, come lo si produce, che reazioni provoca, quale direzione si riesce a dare ad una frase musicale e in quale contesto, in una visione globale. Faro di tutto ciò è il canto! Da sempre cerchiamo, con tutti gli strumenti, di imitare la voce, la sua inflessione, i suoi respiri, nella voce sola o nel dialogo e intreccio fra voci. Tutto questo è profondamente radicato alla corporeità, alla fisicità di un corpo che risuona, che pensa e che trepida di emozione. Ecco dunque quanto importante è ascoltare il corpo, nelle sue vibrazioni e reazioni, fisiche e psicologiche.

La musica è scrittura, narrazione. Tra letteratura e musica esistono molteplici punti di contatto estetico, comunicativo, ma la musica resta un medium indiscutibilmente più diretto. Nel panorama contemporaneo, la comunicazione scritta è sempre più essenziale, digitalizzata, e risulta, quindi, sottrattiva. A suo parere possiamo parlare di “effetto digitalizzante” anche nella letteratura pianistica contemporanea?

La rarefazione del linguaggio musicale è ormai estrema e i supporti tecnologici fanno perdere le tracce di un discorso musicale che abbia dei contorni musicalmente definiti. Questo non è certamente un processo di questi ultimi anni, legato alla digitalizzazione, ma un lungo e inesorabile percorso di sviluppo ed elaborazione, a tratti fondati sulla logica estrema delle sequenze compositive.
Nel caso della musica direi che la riflessione è diversa da quella che potrebbe essere per una composizione letteraria, dove vi è un rapporto diretto scrittore-lettore. Nella musica il ruolo dell’interprete (il secondo anello della catena compositore-esecutore-fruitore) è quanto mai necessario, per una basilare considerazione legata alla riproduzione dell’Opera. Qui sta all’esecutore, appunto, il ruolo di sintetizzare i segni (legati alla tradizione o alla più spinta tecnologia musicale) portando il frutto del suo lavoro, di ricerca attenta e per quanto possibile fedele al testo. Questa caratteristica è comunque presente, che si parli di un linguaggio tradizionale o contemporaneo. Non mi sembra tuttavia si vedere un effetto digitalizzante, al punto da stravolgere la successione di cui parlavo poc’anzi, che rimane il pilastro della rappresentazione musicale.

È, dal 2005, Professore presso la Hochschule für Musik di Basilea. L’attività didattica, in una sede così prestigiosa, è stata sicuramente una scelta molto impegnativa. Le chiediamo se concepisce l’insegnamento come una naturale evoluzione del suo percorso, umano e professionale, e in quale modo questa esperienza l’ha ulteriormente arricchito come artista.
Lei insegna in una scuola di perfezionamento, quindi si trova quotidianamente a contatto con giovani, provenienti da ogni parte del mondo, determinati a percorrere la carriera solistica. Quali sono, a suo parere, le prospettive cui si affacciano queste nuove generazioni di pianisti?
La dimensione dell’insegnamento è ormai per me irrinunciabile. Il contatto umano e musicale con gli studenti è fonte di stimoli e tiene sempre vivo il faro della ricerca, attraverso l’elaborazione di soluzioni possibili per ciascuno studente. Inoltre, in molti casi, la discussione sui temi portanti è ricca di nuove visioni, che vengono costantemente discusse, per poi lasciare la totale autonomia allo studente, in un’ottica di “indipendenza” del pensiero.
Quella del musicista è una professione (per quanto in molti pensano non lo sia…) difficile, che richiede tenacia e costanza nel tempo. Un vero Credo.
Ad oggi le prospettive sono davvero complesse, gli spazi per mettersi in luce risicati e il supporto che i Governi danno alla vita musicale è sempre meno sostanziale. Detto ciò, sono convinto che la forza giovanile, dell’entusiasmo e dell’energia, possa far ribaltare molte di queste situazioni a tratti scoraggianti, e che se solo si ha la forza di tenere duro, nel tempo, se ne avranno le giuste soddisfazioni e gioie. Si deve lavorare su più fronti, dal solismo alla musica da camera, dall’accompagnamento alla didattica. Tenacia è la parola d’ordine!

Dopo un periodo drammatico, in cui qualsiasi attività comporti presenza di pubblico – concerti inclusi – è stata cancellata, si inizia ad intravedere la fine del tunnel. Quali sono i suoi progetti a breve, medio termine?

Nelle prossime settimane sarò impegnato con alcuni concerti dedicati alle Sonate di Beethoven, a Perugia, Torino e Milano, oltre alla partecipazione ad un Festival in Germania. A seguire, la tanto amata musica da camera, con un concerto in collaborazione con Enrico Bronzi, violoncellista, altri concerti a Torino e Trieste, per poi passare al nuovo anno.

Le porgo un’ultima domanda, apparentemente banale ma, sono certo, stimolante per i nostri lettori: qual è il lato più appagante, il motivo più profondo che la porta, da molti anni, ad amare la sua professione?

Ciò che si può coltivare nella quotidianità del lavoro, nella solitudine e nell’autonomia è quanto mai vitale per me. Con questo intendo dire che in tale dimensione si ha la possibilità di “sentire” le corde più profonde, le confessioni più intime che il compositore ci consente di intravvedere. A noi, quindi, la capacità di scorgerle. Ecco, poter svelare questi segreti è la cifra più emozionante…a volte mi sento come una specie di speleologo dell’anima, che cerca fino a trovare una piccola luce.


FONTE: Intervista realizzata da Corrado Passi